Per borghi e villaggi perduti nelle campagne mercatellesi
Nei giorni scorsi ha trovato spazio su ilfederico.com la guida a Mercatello sul Metauro. Confesso che, almeno da queste parti, è uno degli articoli più letti di sempre. Tratta però solamente del centro storico, e la meraviglia di questo bel paesello ficcato in mezzo al verde dell’Appennino non è affatto contenuta unicamente entro le mura cittadine.
Ci sono infatti luoghi dove la storia non è fatta da duchi, papi e imperatori, ma da gente comune. Ci sono luoghi dove la bellezza non ha i colori sgargianti e preziosi d’una bottega d’artista, ma il grigio delle pietre faticosamente lavorate a mano, una ad una, dagli abitanti. Ci sono luoghi che per capirli non serve una guida, ma la capacità di riconoscerne il sussurro dell’anima.
A questi luoghi appartengono i borghi e i villaggi perduti nelle campagne mercatellesi che ho scelto di dire in questo itinerario a cui, senza volerlo, ho dato la forma di breve racconto di viaggio. Per motivi di tempo e di spazio non ho potuto dire di tutti i nuclei abitativi che gravitano attorno a Mercatello, ma mi riservo di ampliare prossimamente la collezione.
Un’avvertenza prima di cominciare: quasi mai per comprendere un abitato è sufficiente una fotografia (soprattutto se la foto è mia, che fotografo proprio non lo sono) e così, alla fine di questo paragrafo, ho inserito un video. Ti consiglio però, affinché tu possa gustarlo appieno, di vederlo solo dopo aver letto l’articolo.
Buona lettura.
Castello della Pieve
Volendo dire dei villaggi che gravitano attorno a Mercatello sul Metauro, non posso che partire da Castello della Pieve. In effetti, non c’è occasione in cui questo luogo, con la sua splendida torre medievale ancora intatta e le sue vedute mozzafiato sulla valle sottostante, non mi lasci a bocca aperta.
Ogni visita è come fosse la prima, ogni sguardo gettato alle pietre che vanno a comporre le ordinate e caratteristiche abitazioni riceve in cambio un carico di suggestioni sempre diverso.
Un vezzo che immancabilmente mi concedo quando mi trovo da queste parti è quello di percorre l’unica via che fende l’abitato fissando le scarpe che si muovono veloci sull’acciottolato, costringendomi a non sbirciare troppo attorno. Sono infatti solito cominciare la visita dalla fine, cioè da quello che doveva essere in origine il vero ingresso al castello e che si trova esattamente all’opposto dello spiazzo dove sono avvezzo fermare l’auto. Varcare questa soglia mi riporta al bambino che ero, a quel bambino che brandiva due tavolette di legno inchiodate a croce e diventava un cavaliere coraggiosissimo.
Oggi però non mi voglio soffermare troppo nel narrare di Castello della Pieve. La sua bellezza semplice e lampante ne fa già il protagonista di articoli che, almeno di tanto in tanto, appaiono su riviste e blog specializzati. Una specie d’immortalità, poi, gli è da un pezzo garantita dalle numerose biografie che ripropongono in tutte le salse la vita del più grande di tutta la letteratura: Dante Alighieri. Per inciso, è proprio qui che ne è stato decretato l’esilio da Firenze.

Borghi e villaggi perduti nelle campagne mercatellesi – Castello della Pieve
Ca’ Montioni
Il fatto è che al momento mi va di dar voce a quei villaggi di cui nessuno, o quasi, parla più. E allora torno in direzione del capoluogo comunale, ma al posto di entrare in paese inforco una stradicciola che mi porta dritto dritto a Ca’ Montioni.
Immediatamente, all’arrivo, vengo investito da un gradevole profumo di pane sfornato di fresco e dalle coccole di un cane che pare piuttosto felice di vedermi. Poco più in là, appeso al suo rastrello come un ferito alla sua stampella, se ne sta Franco. Mi rivolge un sorriso, un cenno di saluto col capo e mi accoglie come se ci conoscessimo da sempre. Usanza tutt’ora in voga, da queste parti.
Chiedo del villaggio e mi dice che le case più vecchie sono state costruite nel 1300, le più recenti cinque secoli dopo. Mi confida anche che buona parte di queste apparteneva ai suoi antenati. A seguito di divisioni ereditarie, e con più di qualche sacrificio economico, è riuscito ad accaparrarsene qualcuna. Il desiderio era di mettere in piedi un agriturismo capace di dare sostentamento alla sua famiglia, di creare un futuro in un luogo che è eccezionale testimone di passato.
Capisco che è riuscito a tradurre solo a metà nel grande libro del presente ciò che era scritto nei suoi sogni quando mi racconta, un po’ fiero e un po’ triste, che suo figlio fa lo chef a Fano, in uno dei locali più prestigiosi della città.
Mi invita a vedere la sala dove viene servito un buonissimo cibo casereccio e mi propone uno spuntino. Ringrazio, ma si è fatta l’ora di rimettermi in cammino. Prima di ripartire, però, gli domando quanto tempo impiegasse da ragazzino a raggiungere Mercatello e la scuola. Scuote la testa divertito. No, afferma, la scuola era qui vicino. E’ ancora in piedi, ma ci scommetterebbe la testa che non la riconoscerei come tale. Già allora era una casa colonica che poco aveva dell’aspetto di un istituto, con l’unica classe posizionata sopra la stalla.

Borghi e villaggi perduti nelle campagne mercatellesi – Ca’ Montioni
Montedale
Ed è proprio per riattare una vecchia scuola ad abitazione che Pasquale ha speso parte dei suoi risparmi. E’ un tipo che percepisco subito simpatico e alla mano mentre, assieme al cagnolone Argo, mi viene incontro appena metto piede a Montedale. Il suo accento tradisce una lunga permanenza in quel di Roma. Ma è originario del borgo e ha voluto rinsaldare i legami col villaggio natio acquistandoci un posto dove venire di tanto in tanto – ogni quindici giorni, precisa – per dare un calcio sugli stinchi alla vita frenetica della Capitale e riappropriarsi dei giusti ritmi.
Bestia e proprietario mi accompagno mentre mi aggiro per questo borgo appollaiato su di un poggio a sua volta racchiuso tra due alture più imponenti, caratteristica da cui il luogo prende nome: Montedale, ovvero il monte con le ali.
Parliamo per un po’ del più e del meno, di come è bella la natura da queste parti. Delle nostre vite, infine. E lo facciamo con la sincerità propria dei discorsi che intercorrono tra persone capaci di starsi a sentire, di persone consapevoli del fatto che con ogni probabilità non si vedranno mai più. Prima di salutarci mi consiglia di gettare un’occhiata al Campo Santo. Non è che ci troverò la Statua della Libertà, dice, ma è un posto che sa donare più di qualche sensazione.
Mi addentro allora per il sentiero che fende il bosco e percorro quello che a occhio e croce mi pare un mezzo chilometro, fino a raggiungere il piccolo cimitero di Montedale. In effetti è un posto molto suggestivo e, al contrario di quello che mi sarei aspettato, non trasmette alcuna tristezza. Semmai una quiete infinita. Una quiete appena velata dall’amarezza di una domanda: chissà se qualcuno ricorda ancora le persone che dietro queste lapidi hanno trovato il riposo eterno? D’altra parte, l’ultimo ospite ha reso l’anima a Dio sul finire degli anni ’60. Un bel po’ di tempo fa, insomma.
Svaccato sull’erba, resto un momento a farmi accarezzare il viso da un sole che promette estate e mi gusto la melodia di un qualche uccellino nascosto chissà dove tra la vegetazione. Poi mi tocca di tornare a convincere quel ferro vecchio di Ypsilon a trascinarsi fino al prossimo borgo, un borgo piuttosto famoso per il vicino traforo che ne condivide nome e luoghi: la Guinza.

Borghi e villaggi perduti nelle campagne mercatellesi – Montedale
Guinza
Qui gli abitanti parrebbero essere scappati da un pezzo e le porte lasciate aperte in alcune case rivelano che il loro utilizzo è ormai solo quello di rimessa per gli attrezzi. Diversamente dalle numerose famiglie che un tempo vivevano il villaggio, la Chiesa di San Lorenzo è ancora lì. Ma chiusa.
Mi rammarico pensando di non poter entrare e concedere così agli occhi la possibilità di mettere assieme i frammenti di quella che credo possa essere una bella storia. Tuttavia un racconto, questo splendido luogo di fede, me lo dona lo stesso. Un racconto non deducibile da pietre e opere d’arte, ma scritto nero su bianco su di un foglio plasticato appeso al portone con una puntina da disegno.
Sono le parole commoventi e colme di gratitudine uscite dalla stampante di Nick Young, figlio del Maggiore inglese Leslie Young.
Nick, afferma il biglietto, sta ripercorrendo assieme alla moglie il tragitto che ha consentito a suo padre, scappato dopo l’armistizio da un campo di prigionia in Toscana, di ricongiungersi con l’Armata Britannica ad Anzio. La storia prosegue descrivendo il coraggio che la gente di questo posto ha usato nel nascondere Leslie in un territorio brulicante di tedeschi e si conclude con la ferma volontà da parte di suo figlio di sdebitarsi con il popolo a cui il genitore dovette la vita.
Nick è oggi presidente della Monte San Martino Trust, un’associazione fondata da Leslie e da alcuni suoi commilitoni, un ente che offre borse di studio ai ragazzi provenienti da paesi e villaggi che aiutarono i prigionieri alleati al fine di ospitarli in Inghilterra e consentire loro, in questo modo, di apprendere la lingua.

La bella chiesa di San Lorenzo – Guinza
Sant’Andrea in Corona
Abbandonato il borghetto di Guinza, lascio che l’auto sferragli senza fretta per la strada tutta curve e mi addentro sempre più nella sorprendente natura dell’Appennino fino a raggiungere Sant’Andrea in Corona.
Questo sì, è un luogo che mi ispira profonda tristezza. Fino agli ’70, nonostante la posizione isolata, era un borgo vivissimo, un borgo che per i festeggiamenti del carnevale era capace di richiamare un’orda di uomini e donne proveniente da Città di Castello e da buona parte della Valle del Metauro.
E poi, Puff!, in un batter d’occhio tutto finito. Delle quindici allargatissime famiglie che hanno continuato ad abitarlo fino alla metà degli anni ‘80 non è rimasta ombra. Si dice abbiano venduto a una grossa organizzazione perché questa potesse realizzare una grande struttura ricettiva. E si mormora pure che l’acquirente, ottenuti i fondi europei, si sia dato al più classico del “prendi i soldi e scappa”.
Vandali e approfittatori hanno fatto il resto. I gradini delle case sono stati divelti per puro sfizio, mentre un buon numero di tegole e mattoni si è come volatilizzato per riapparire magicamente a distanza di qualche tempo in qualche nuova dimora ficcata chissà dove.

Borghi e villaggi perduti nelle campagne mercatellesi – Sant’Andrea in corona
Tuttavia non mi va che l’ultimo ricordo di questo piccolo viaggio cominciato appena dietro l’angolo di casa sia un’immagine gonfia di amarezza. E allora, al mio ritorno in paese, chiedo alla gente di narrarmi qualcosa di bello su Sant’Andrea in Corona.
Quello che spunta fuori è uno straordinario campionario di aneddoti, ma a far centro, a toccare le corde del mio sentire, è una signora originaria del luogo che da tempo si è trasferita armi e bagagli a Mercatello. Una storia che è riuscita a commuovermi, la sua. Una storia che ha per protagonista una parente piuttosto prossima. Credo mi abbia colpito così nel profondo perché proprio non riesco a non sovrapporla a una vicenda avvenuta nello stesso anno a Sant’Angelo in Vado, una vicenda raccontatami appena qualche giorno prima da un anziano vicino di casa.
Be’, quello che è successo a Sant’Angelo nel ‘44 è molto semplice. E molto inumano. Le parole che servono per dirne sono appena una manciata: ci sono un tedesco ferito e un contadino furioso per come stanno andando le cose. Il contadino obbliga il tedesco a scavare una profonda buca e ce lo infila dentro quasi per intero, con la sola testa a emergere dalla terra come una verdura. L’italiano, in tutta evidenza fuori di sé, punta un dito a indicare il pollaio e pone un quesito: “tu e i tuoi amici crucchi mi ruberete ancora quelle cazzo di galline?”. E giù una violenta palata al capo inerme. Il soldato cerca di sbiascicare una risposta, mentre il sangue ne rende il volto una maschera rossa. L’altro formula di nuovo la medesima domanda, l’espressione quella di un folle. Palata.
Domanda.
Palata.
E così finché Sorella Morte non decide di mettere fine alle sofferenze del militare con la sua misericordia.
Il fatto avvenuto a Sant’Andrea in Corona ha un incipit praticamente identico a quello vadese. L’epilogo, tuttavia, non potrebbe essere più diverso. Anche qui c’è un tedesco moribondo che viene ritrovato appena poco meno che pronto per il campo santo. A scoprirlo è però una donna, una donna che dentro quell’uniforme sbagliata non vede un nemico, un ladro prepotente o una macchina buona per uccidere. Lei ci vede solo un uomo conciato male, un ragazzo da nascondere il prima possibile allo sguardo dei vicini e dai partigiani che, numerosi, si celano nel fitto bosco attorno al villaggio. Coi pochi mezzi che costei ha a disposizione sfama il milite e gli presta amorevoli cure, cure che si protraggono fino a che l’ospite ritrova le forze e se ne va.
Qualche anno più tardi alla signora viene recapitata una fotografia. Un uomo, una donna e una serie di marmocchi le sorridono dall’immagine. Sul retro dello scatto c’è una sola frase, brevissima e vergata in italiano:
“E questo grazie a te”.