Darsena Borghese, la splendida ossessione fanese
Migliaia sono le persone che ogni giorno transitano per il Ponte della Liscia. E tra un gioco di pedali e un colpo di clacson utile a dar la sveglia all’automobilista che precede, davvero in pochi fanno caso al bello spiazzo balconato che se ne sta a pochi metri. Ancor meno si interrogano sul cosa si nasconda al di là dell’elegante balaustra. Ed è un peccato, basterebbe gettar l’occhio per scorgere uno dei luoghi più caratteristici della città: è la Darsena Borghese di Fano.

Storia della Darsena Borghese di Fano
Immaginatevi un gatto pelle e ossa che, all’ora di pranzo, se ne sta accoccolato sulle ginocchia del suo vecchio padrone. Dalla tavola imbandita di tutto punto provengono profumi che invitano a leccarsi i baffi e lo sguardo, quel maledetto, non può fare a meno di tuffarsi più e più volte su scodelle e piatti ricolmi fino all’orlo. Di tanto in tanto all’animale – esserino sempre sul chi vive – una mano concede qualche mollica, miseri avanzi che non solo non riempiono lo stomaco, ma che al contrario ingigantiscono il perenne appetito.
Ecco, Fano per lungo tempo dovette certo sentirsi frustrata al pari di quel povero felino: numerosissime erano le merci che, provenienti dalla Via Flaminia, transitavano per la città. Ma la promessa di ricchi commerci intrinseca a quei prodotti non si trasformava mai in realtà: di fatto il popoloso centro adriatico rimase a lungo punto di solo passaggio per quel ben di Dio che faceva capolino per un attimo appena e poi spariva, per ricomparire poco più in là, in uno degli altri abitati marchigiani dotati di un porto.
In effetti, anche la sola presenza di un adeguato ricovero naturale sarebbe stata sufficiente a cambiare l’economia e le sorti di Fano. Tuttavia, la costa locale, ad eccezione delle foci dei due corsi d’acqua dolce che l’accarezzavano (Metauro e Arzilla), si mostrava bassa e dritta per tutta la sua estensione. Non che qualche modesto scambio non fosse praticabile attraverso il trasbordo su navi più piccole (poi tirate in secco sulla spiaggia), ma il commercio vero era ben altra cosa.
Più volte in epoca medievale – alcuni sostengono anche in età romana -si cercò di rimediare alle necessità tentando la costruzione di scali a sinistra e a destra dell’abitato. Ogni volta fu un insuccesso: la particolare conformazione costiera poco si prestava alla realizzazione di importanti infrastrutture, infrastrutture che si mostrarono disastrosamente soggette a interramento. Anche alla blasonata famiglia dei Malatesta toccò, suo malgrado, di accorgersene.

La soluzione secentesca
Alla fine del ‘500, Fano venne a trovarsi di fronte a un nuovo problema: i mulini della comunità. Queste strutture, che garantivano buone entrate alla città, erano ormai vecchie e tutto fuorché sicure.
Nel 1610 il Consiglio generale discusse un nuovo progetto in tal senso. L’idea era quella di dar vita a nuovi mulini e a un vallato che, distaccandosi dal Metauro, portasse loro un flusso continuo di acqua. E già che un vallato si sarebbe comunque fatto, perché non allungarne il percorso e utilizzarlo per evitare l’insabbiamento in un nuovo porto?
In mezzo a entusiasmi e feroci proteste si fece largo il progetto del Breccioli, per il costo tutt’altro che irrisorio di 18.000 scudi. I lavori filarono piuttosto lisci e già nel ’12 l’acqua aveva preso a correre fino in città. Si potrebbe dire tutto bene, se non fosse per il carattere burrascoso del progettista che finì con l’indispettire la committenza.
Il progetto passò dunque nelle mani dell’ “architetto del popolo romano” Girolamo Rainaldi e in poco tempo ecco le macine del primo mulino azionate notte e giorno. Era giunto per il nuovo arrivato il momento di concentrarsi sull’obiettivo più prestigioso: il porto.

Storia di un meraviglioso fallimento
Il 4 giugno 1612 Rainaldi presentò i suoi disegni al Consiglio. L’idea dovette sembrar buona e i politici locali non si limitarono a mostrarsi soddisfatti, ma vollero metterci del loro nella pretesa che il porto si chiamasse Porto Borghese in onore di Papa Paolo V (al secolo Camillo Borghese). Il nome non è affatto fortuito: sarebbe stato proprio il Pontefice a dover approvare lo sblocco definitivo dei lavori e, a quanto credevano i fanesi, a provvedere al pagamento per gli stessi.
Da Roma arrivò il benestare affinché si cominciasse a mettere mano alla nuova infrastruttura (a patto che questa si facesse vicino alla Rocca e non nella zona di Padulo come espresso dall’architetto), ma di soldi nemmeno a parlarne: di sicuro c’era stato un malinteso. L’esorbitante spesa che ora si profilava all’orizzonte per la comunità di Fano avrebbe saputo dissuadere anche il più entusiasta sostenitore del progetto, ma la città si era spinta troppo oltre: i 18.000 scudi già sborsati per la realizzazione del vallato (oggi conosciuto come Canale Albani) imponevano di non fermarsi.
E, insomma, nonostante il nuovo debito di 32.000 scudi di cui di lì a poco la città avrebbe dovuto farsi carico, il Rainaldi venne accolto con estrema euforia. Ma l’entusiasmo non durò: già dopo pochi mesi i fanesi presero ad accusare il progettista per la lentezza con cui portava avanti il compito e, peggio, la monumentalità della struttura li insospettiva al punto di chiedersi se a tanta bellezza sarebbe corrisposta altrettanta funzionalità.
E, in effetti, il popolo non si sbagliava: i tempi di realizzazione si protrassero per tre volte il pattuito e la Darsena Borghese si mostrò presto per quello che era. Vale a dire un maestoso fallimento, un’opera di fatto inutilizzabile: troppo corti il canale e i moli, mentre l’elegante forma ovata favoriva il ristagno delle acque e l’interramento… interramento contro cui la scarsa forza espulsiva del vallato poteva ben poco.

Nuovi progetti, nuove delusioni
Disastrosamente concluso l’intervento di Girolamo Rainaldi alla Darsena Borghese di Fano, per parecchio tempo si pensò unicamente alla conservazione dell’opera: nessuna miglioria strutturale, ma semplice e costosissima amministrazione.
Sul finire del secolo si decise di interpellare l’ingegnere idraulico olandese Cornelio Meyer. Egli impiegò la bellezza di dodici anni per avanzare soluzioni al problema, di cui le più sensate furono quelle di allungare la palificata di levante e, al contempo, di garantire maggiore portata al vallato al fine di aumentarne la forza espulsiva (l’olandese ipotizzò di dirigerlo direttamente al porto senza farlo passare per il mulino e di scaricarvi anche l’acqua di alcuni fossi).
Di fatto, però, di lavori sotto il Meyer non se ne fecero. Le idee del buon Cornelio vennero tuttavia in gran parte riprese dal suo successore Gerolamo Caccia. Ma con una variante che si mostrò presto per l’errore madornale che era: per aumentare la forza della corrente fu introdotta l’acqua dell’Arzilla, acqua così ricca di sabbia e terriccio che non solo non si raggiunse lo scopo, ma ancor meno tempo prese a passare tra un interramento e l’altro.
Come se la beffa non fosse già gran cosa, con il Caccia vennero a scomparire dalla Darsena Borghese la forma ovata orlata di pietra d’Istria e le superlative gradinate che fiancheggiavano la loggia.

La Darsena Borghese di Fano nel settecento
A capo dei lavori si susseguirono poi altri architetti e ingegneri, ognuno con in testa le proprie idee. Le cose migliorarono quando venne aumentata la pendenza del vallato ed eliminato – a lato del loggiato – uno dei due scaloni monumentali (amputazione che consentì un maggior flusso d’acqua).
Fu Carlo Murena ad avere l’intuizione giusta per rendere definitivamente agibile la Darsena Borghese di Fano: egli fece realizzare un molo guardiano ad est del canale che, allungato periodicamente, avrebbe scongiurato nuovi interramenti.
In effetti, con gli ultimi interventi, il porto fanese si mostrò piuttosto funzionale.
Ma c’è un ma.
Con la devoluzione del Ducato d’Urbino allo Stato Pontificio, la Santa Sede aveva già in seno porti come Pesaro e Senigallia, e favorendo Fano li avrebbe inutilmente danneggiati.
Il momento buono per la Città della Fortuna era già attimo perso nel passato.