La leggenda del pianto di Taddea
Sarà probabilmente capitato agli escursionisti avvezzi a weekend dalle parti dell’Eremo di Morimondo di imbattersi in una strana conformazione rocciosa, in una specie di tremendo corno che spunta bruscamente fuori dalla terra e che pare possedere i lineamenti di un tristissimo volto umano: è la Rupe di Taddea.
Un orribile sasso che prende il nome da una delle tante storie che la tradizione locale ha saputo raccontare. In effetti, le vicende dell’infelice Taddea sono state dette in mille maniere, ma la versione forse più affascinante, con più appigli alla storia reale, è senz’altro quella che la vorrebbe amante di Muzio Brancaleoni.
Ma chi era Taddea? Si dice che fosse figlia d’un feudatario umbro, e che come il padre si fosse avvicinata alla causa guelfa più per convenienza che per reale convinzione. E il motivo stava tutto nel fatto che i possedimenti di famiglia avevano da qualche tempo preso a esser minacciati dall’ingordigia del signore d’Assisi: il ghibellino Muzio, appunto.
Sia come sia, ci fu un giorno in cui le strade dei due vennero a incontrarsi, o per meglio dire, a scontrarsi: la tanto bella quanto mascolina Taddea, affatto rassegnata al bon ton imposto alle giovani di rango, era intenta a contendersi l’onore d’una vittoria in una gara improvvisata tra amici e a direzionare la corsa del suo cavallo tra la folla, quando, d’un tratto, l’animale dovette vedere arrestato il suo impeto nel travolgere un ubriaco ciondolato fuori dalla porta di un’osteria senza guardare.
La selvatica fanciulla si affrettò a soccorrere l’investito, ma accortasi dagli indumenti di lui che si trattava di un soldato ghibellino dovette moderare la sua preoccupazione e allungarla con un po’ di disprezzo. Ad ogni modo, non potendo lasciare un ferito in strada e dimenticare del tutto la cortesia, aiutò l’uomo a issarsi come un sacco sopra il cavallo per condurlo poi presso un’abitazione che lei aveva in proprietà nel centro cittadino.
Quando i fumi dell’alcol lasciarono un po’ rinsavire l’ospite, Taddea si affrettò nel raccontargli che lo aveva salvato solo per pietà cristiana, che quasi già era pentita della buona azione e che al più presto egli avrebbe dovuto abbandonare la casa. Infine, visto che l’uomo si attardava nel ribattere, pensò di pungolarlo ulteriormente facendogli notare che la buona qualità degli abiti da lui indossati contrastava alquanto con quella del vino servito nell’osteria di cui era cliente.
L’uomo sibilò allora a mezza voce che i dispiaceri si affogano meglio in una botte di vino cattivo che in un bicchiere di quello buono. Che ne sapeva lei dei suoi problemi? Dei problemi di uno che si era fatto da solo fino a divenire Muzio Brancaleoni, il signore d’Assisi – anzi, come lo chiamavano in città, il “tiranno” -, fino a mettersi a capo d’un esercito per conquistare Spoleto e poi finire a gambe all’aria in uno schiocco di dita? Cosa ne sapeva lei, tutta presa dal giocare ai cavalli, del fatto che sulla di lui testa pendeva una scomunica e che i suoi alleati stavano cadendo ad uno ad uno, compreso il migliore, il conte d’Urbino, trucidato in piazza dal suo stesso popolo?
Lei, impassibile anche dopo averne scoperto l’ingombrante nome, lo lasciò dire. Poi, come una gatta che si ritrova d’un tratto la coda sotto un manico di scopa, tentò un agguato tanto rapido quanto furente: che sapeva invece lui degli affronti e delle umiliazioni che la vita le aveva riservato? Era forse a conoscenza del dolore che si prova a non essere amati da una madre? O forse sapeva meglio valutare il senso di vergogna e inadeguatezza che si prova nello scappare via da un marito mai desiderato com’era accaduto a lei?
Le parole dei due presero via via a farsi affilate come coltelli, quasi che il rispettivo interlocutore fosse causa diretta dei mali di ognuno.
E quando ci si rese conto dell’esagerazione, si dovette nell’imbarazzo procedere alle scuse. Ai ringraziamenti, addirittura, perché lo sfogo aveva di molto alleggerito gli animi di tutti e due: entrambi avevano mostrato il proprio lato più inedito e vulnerabile e si erano accorti che in fondo non ne avevano ricavato alcun dolore. Così, anche quando la convalescenza di Muzio fu finita, ognuno continuò a curare le ferite nell’anima dell’altro.
Ci si impegnarono al punto da divenire amanti, amanti di un amore selvaggio, dolcissimo, folle.
Un amore, tuttavia, su cui la storia aveva già scritto la parola fine.
Gli eventi avevano infatti reso Muzio un uomo prossimo alla rovina. Egli si sarebbe addirittura di lì a poco visto costretto a vendere i propri beni per preservarne almeno il valore in moneta e a vivere nascosto come l’ultimo dei ladri per evitare la prigione.
E quando il Brancaleoni si fece ragione che il pericolo avrebbe in qualche modo potuto abbattersi anche su Taddea, non senza lottare, riuscì a ficcare la fanciulla in groppa ad un destriero col muso puntato verso Rocca Leonella: là, nel feudo piobbichese, i di lui parenti l’avrebbero protetta fino a che le acque non si fossero calmate.
Nel fortilizio marchigiano la bella umbra, lontana dal suo amore, non visse certo momenti troppo felici. Però ci si attrezzava perché non le mancasse nulla e le giornate, seppur lentissime, riuscivano a scorrere.
Venne però il momento in cui anche Piobbico si mutò in guelfa. Le antiche malefatte di Muzio non erano state affatto dimenticate dalla Chiesa e, in mancanza di lui, si cercò di mettere le mani su di lei, probabilmente nel frattempo riconosciuta da qualcuno. I cugini di Muzio tentarono di convincere la ragazza a umiliarsi dinnanzi al Pontefice come da questi richiesto, ma lei, anima libera, non volle saperne.
Nessuno sa dire se fu perché non volesse mettere in pericolo i parenti del suo innamorato o perché desiderasse tentare di riabbracciare Muzio un’ultima volta, fatto sta che l’indomabile Taddea fu vista uscire dal castello col suo veloce cavallo. In un istante i soldati attaccarono l’inseguimento e lei, benché più ardita e abile, dovette ben presto arrestare la sua corsa dalle parti della rupe che ne porta il nome: si trovò con dietro l’onta e la prigione, e davanti uno straordinario salto nel vuoto.
Ci pensò un attimo appena. Né il cavallo né il corpo di lei vennero ritrovati.
Si dice che Muzio, che in qualche maniera si era riusciti ad informare dei fatti, accorse all’antico fortilizio di famiglia e non smise per giorni di cercare la sua anima gemella. Il Brancaleoni non vide Taddea, eppure la trovò. La trovò nella triste pioggerellina che cadde come un pianto trattenuto a stento da un cielo altrimenti terso.
Ancora oggi non sono pochi i locali pronti a giurare che se si grida per tre volte il nome della sfortunata ragazza nei pressi della rupe di Taddea, non importa quale sia l’umore del cielo, qualche lacrima verrà giù dal cielo a inumidire il viso di chi la chiama.