Madonna di Senigallia, Piero della Francesca
La Madonna di Senigallia, oggi custodita presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, è una delle opere più interessanti di Piero della Francesca.
Apparentemente questo dipinto (olio su tavola, cm 61 x 53,5) nulla possiede dell’enigmaticità spesso propria agli altri lavori realizzati dal Maestro di Borgo San Sepolcro. D’altra parte, lo stesso soggetto trattato è uno tra i più ricorrenti nell’intera storia dell’arte: la Madonna col Bambino e due angeli.
Ma è davvero così lineare la lettura che possiamo dare di questo piccolo capolavoro?

Cosa vediamo quando guardiamo la Madonna di Senigallia di Piero della Francesca
I protagonisti del dipinto sono immersi in un’atmosfera estremamente raccolta. Le figure, sobrie e composte, danno al tutto l’idea di un ché di monumentale. Al contempo, però, l’immagine non ci appare distante: l’intuizione dell’artista toscano di ambientare la scena all’interno di una dimora quattrocentesca, nonché quella di vestire i personaggi con abiti del medesimo periodo, ci riporta all’intimità e al realismo del vissuto quotidiano.
Gli effetti luministici, invece, oltre a sussurrarci all’orecchio la parola purezza, raccontano di un Piero affascinato dalla pittura fiamminga di cui – proprio con questo lavoro – dimostra di avere colto i segreti.
Pochi sono gli oggetti ritratti. Ma è proprio grazie a questi che ci si può spingere fino ad affermare che la Madonna di Senigallia è molto più di quello che appare. Essi sono simboli, e tanto hanno da dire.
Partiamo dal Gesù Bambino seduto sul braccio sinistro della madre. Egli rivolge con la mano destra un gesto di benedizione all’osservatore, mentre utilizza la mancina per stringere una rosa bianca, simbolo del rosario. A pendere dal collo del piccolo è un corallo, corallo che oltre ad essere un richiamo al sangue versato sulla croce è anche sinonimo di protezione (facciamo tesoro di questo termine, ci servirà più tardi).
Tra la testa di Gesù e di quella dell’angelo che sta lui a fianco, sullo sfondo, si fa poi notare una decorazione: è un cero pasquale che racconta allo stesso tempo di morte e di rinascita. Più a destra c’è uno scaffale che ospita un contenitore per ostie consacrate (qui il richiamo è al sacramento dell’eucarestia). Sul ripiano immediatamente sotto, una cesta di vimini: questa potrebbe alludere tanto al ruolo salvifico della Madonna che accoglie Cristo nel suo grembo (così come la cesta accolse Mosè) quanto – visti i veli che contiene – alla sepoltura.
E’ tutto? Siamo sicuri che la Madonna di Senigallia dica soltanto della visione religiosa del suo creatore? In effetti c’è dell’altro. Ma prima di svelare i segreti più intimi del dipinto sarebbe utile ripercorrerne, almeno a grandi linee, la storia.

Il percorso della Madonna di Senigallia attraverso i secoli
In passato non si è fatto un gran parlare di quest’opera realizzata, probabilmente, tra il 1472 e il 1480. Il perché dipende forse dall’errata attribuzione. Scarse sono le menzioni che la riguardano e la più antica, almeno tra quelle arrivate fino ai giorni nostri, risale al relativamente recente 1822, allorché Padre Luigi Pungileoni scrisse in una missiva indirizzata all’amico Raimondo Arnaldi di aver rinvenuto presso la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Senigallia un abbozzo della Pala di Brera.
Esatto, si tratta della nostra Madonna col Bambino e due Angeli.
Ora, dal momento che la paternità della Pala di Brera (o più correttamente Pala Montefeltro) era all’epoca ritenuta cosa di Fra’ Carnevale, nessuno arrivò a collegare il dipinto senigalliese al suo vero realizzatore. Peggio, l’opera era così malmessa, la sua bellezza così nascosta dietro la patina di sporco, da attirare un’attenzione prossima allo zero da parte dei critici.
Colui che riuscì a vedere più lontano di altri (siamo tuttavia già nel 1854) fu Gaetano Moroni che, oltre ad asserire che la Madonna di Senigallia era da attribuire al pittore di San Sepolcro, individuò nei due angeli le figure dei coniugi Giovanni Della Rovere e Giovanna da Montefeltro.
Capita a volte, però, che per un passo avanti se ne facciano due indietro. E così nel 1861, su incarico del primo Governo d’Italia, gli storici dell’arte Giovanni Morelli e Giovanni Battista Cavalcaselle – non ancora persuasi della bontà delle affermazioni del Moroni – valutarono l’opera in 2.500 lire (la sottovalutazione della stessa appare in tutta la sua evidenza se si pensa che i due stimarono la pala del Perugino, ospitata presso il medesimo luogo di fede, valevole di ben 150.000 lire).
Il dubbio circa la vera mano che realizzò la oggi celebre Madonna di Senigallia attaccò ad affievolirsi nel 1892 quando, su richiesta di Domenico Gnoli, venne effettuata un’operazione di pulitura sul dipinto. A seguito del secondo restauro, avvenuto nel 1953, Fra’ Carnevale perse tutti i suoi sostenitori.

Un’affascinante chiave di lettura
Sul finire del ‘800 la tesi del Moroni, che vedeva negli angeli presenti nell’opera il ritratto di Giovanna da Montefeltro e di Giovanni della Rovere, pur non riconosciuta universalmente, fu capace di attrarre il consenso di numerosi critici. L’ipotesi funzionò poi da base per una chiave di lettura tutta novecentesca, assai suggestiva, e che vorrebbe la Madonna di Senigallia non nei panni di un quadro votivo, ma in quelli di una tenera, estrema, disperata richiesta d’aiuto: quella del DUCA DI MONTEFELTRO.
Le ridotte dimensioni della tavola, in effetti, farebbero pensare a un’opera progettata più per una collocazione domestica che non per essere esposta in una chiesa. Per altro, il luogo di fede che la ospitò vide la luce soltanto nel 1491.
Ecco allora che Piero, con tutta probabilità assecondando le richieste di Federico, dipinse la nota Madonna. L’intento, però, non era quello di invitare alla preghiera, piuttosto di stimolare le persone a cui sarebbe stato donato il dipinto a non dimenticare un impegno preso. Quale? Per capirlo occorre sbirciare nel contesto storico e familiare in cui si svolsero gli eventi.
Il contesto
La Madonna di Senigallia di Piero della Francesca venne ultimata in un periodo chiave per la storia d’Urbino e di Senigallia. Il 1474 conobbe infatti lo sposalizio di Giovanna, figlia del Signore urbinate, e Giovanni della Rovere, Principe di Senigallia e nipote di Papa Sisto IV.
Tra Giovanni e suo suocero non tardò ad instaurarsi un rapporto di reciproca stima, tanto che quest’ultimo prese il genero sotto l’ala protettrice dell’aquila feltresca, prestando lui architetti, consigliandolo in merito a scelte politiche e fornendogli finanche protezione militare.
Federico prese a fidarsi del Della Rovere al punto che non si limitò unicamente a fargli da guida, gli affidò persino il suo bene più prezioso: l’unico e fragile figlio maschio, Guidobaldo.
Era un uomo gioviale, il Duca urbinate. Ma il suo animo non era certo composto di sola luce, pure l’ombra riusciva a trovare alloggio nel suo io più segreto. Più volte egli aveva guardato la morte dritta negli occhi sul campo di battaglia, e più distintamente ancora l’aveva scorsa nello sguardo vitreo di Battista, l’amatissima moglie, morta giovanissima, solo pochi mesi dopo avergli donato il tanto atteso pargolo.
Cosa sarebbe accaduto allo Stato di Montefeltro e al piccolo erede se fosse stato costretto a rendere l’anima a Dio? Questo era il pensiero che assillava il grande Federico. Certo, Guidobaldo aveva per tutore Ottaviano degli Ubaldini, uomo fidatissimo e di grande caratura. Ma anche Ottaviano non era più giovane.
La Vergine o Battista Sforza?
Eccoci quindi di fronte ad una tesi rivoluzionaria, autorevolmente espressa da Maria Grazia Ciardi Duprè dal Poggetto. La Madonna di Senigallia altri non sarebbe che la da poco defunta Battista Sforza. E indovinate un po’ chi tiene tra le braccia? Già, proprio lui, Guidobaldo.
Ad avvalorare l’ipotesi della Duprè dal Poggetto, la mano destra della Vergine che vediamo nell’atto di stringere il piedino del fanciullo, come a guidarne i primi passi. Ma il mignolo rivolto verso il basso indica fuor di dubbio la morte. Questo, tuttavia, non è l’unico elemento a richiamare il lutto: lo stesso fanno i veli contenuti nella cesta di vimini che altro non sarebbero se non bende funebri, e poi il lenzuolo che avvolge il Bambino, un lenzuolo fin troppo simile ad un sudario.
E che dire del libro stretto tra le braccia dell’angelo sulla destra, se non che è un chiaro rimando al volume che appare tra le mani della stessa Battista nel suo Trionfo (dipinto sul retro del celebre Dittico)?
Finito? Non proprio. Anche lo sfondo vuol dire la sua: la scena parrebbe collocarsi – come suggeriscono le travature lignee – nella dimora preferita della Sforza, ovvero presso il Palazzo Ducale di Gubbio.

Quale sarebbe, dunque, il messaggio nascosto nella Madonna di Senigallia?
Se quanto detto finora corrisponde a verità, il dipinto non sarebbe un regalo di nozze elargito alla coppia senigalliese dal Duca d’Urbino, semmai un lascito in punto di morte dello stesso Federico, un’estrema richiesta d’aiuto, un modo per ricordare a Giovanna e Giovanni (gli angeli) di tener fede a un impegno morale assunto.
Quale impegno? L’urbinate morì a Ferrara nel 1482, disperato per lo Stato, afflitto oltremodo nel sapere il figlio presto orfano di ambedue i genitori. Forse, se avesse potuto guardare attraverso il tempo, il buon Duca avrebbe chiuso gli occhi sul mondo un pochino più serenamente: Giovanni e Giovanna assunsero davvero il ruolo di angeli custodi del piccolo Guidobaldo, lo sostennero e lo crebbero come ne fossero i veri genitori.
Guidobaldo, una volta adulto, volle ricambiare il gesto della coppia adottandone il figlio Francesco Maria per farne il suo successore al comando del Ducato d’Urbino.
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Il tuo blog è meraviglioso e questo post eccezionale. E’ talmente evidente che non si è davanti ad un quadro religioso, ma tant’è in pochi sono in grado di spiegarne il motivo. Con i due “angeli” che hanno sesso (meno evidente – ma le differenze ci sono pure lì – nella Madonna del parto custodita a Monterchi!) e la matrona (altro che Madonna) che altro non è che una madre che esprime il sentimento più forte ed incrollabile del mondo: l’amore per il figlio. Quello che mi ha sempre colpito è lo sguardo intenso dell’angelo maschio, l’unica figura che fissa l’osservatore in modo talmente determinato dal rendere quasi a disagio chi indugia sul dipinto.
Grazie, Alessandro. Sei davvero gentile. Per quel che mi riguarda, benché non sia tra i dipinti più celebri di Piero, la Madonna di Senigallia ha un valore emotivo eccezionale. E per questo l’ho ficcato nella lista dei miei preferiti.
Un sorriso.