Sacco di Volterra, 1472
Furono avidità e invidia a scrivere una delle più orrende pagine della storia conosciuta: il sacco di Volterra del 1472.
Accadde infatti che degli uomini d’affari, in qualche maniera legati ai Medici di Firenze, riuscirono ad ottenere una concessione per lo sfruttamento di alcuni giacimenti di allume da poco scoperti a sud di Volterra, città sottoposta nominalmente al potere fiorentino ma di fatto abbastanza autonoma.
Le continue estrazioni (che sin da subito si mostrarono ricche oltre ogni aspettativa) e le poco chiare circostanze che avevano portato il consorzio di gentiluomini a mettere le mani su quel bendidio, furono elementi di per sé bastevoli a infastidire oltremodo i volterrani che ora si rammaricavano di vedere dei privati sottrarre ingenti risorse alla comunità in cambio di pochi spiccioli. E così tutti si crucciavano nello studiare un qualche pretesto buono ad annullare la concessione.
Dal momento, però, che il combattere a colpi di leggi e di cavilli sembrava non giovare granché alla causa degli scontenti, una nutrita folla armata pensò bene di entrare nei cantieri e di dare addosso agli sfruttatori.
Il fatto, per Firenze, non poteva restare impunito. In effetti, non ci volle molto perché il partito favorevole allo scontro prendesse il sopravvento sui temporeggiatori, tanto più che a ragionar bene si aveva da guadagnare ben più che qualcosa: una guerra avrebbe potuto infatti trasformare la concessione da temporanea a permanente.

La guerra tra Firenze e Volterra
Chi aveva più da perdere da un eventuale fallimento dell’avventura bellica era Lorenzo de’ Medici: un insuccesso non solo avrebbe comportato un duro colpo per la sua borsa, ma ne avrebbe di molto ridimensionato l’influenza sulla città. E così il potente non volle correre rischi: non Firenze, ma l’intera sua alleanza (comprendente anche Roma, Milano e Napoli) avrebbe combattuto la piccola Volterra.
Federico da Montefeltro, Signore di Urbino e Capitano generale della Lega, volle subito mettere le cose in chiaro con i rivali: entrò nel territorio di Volterra distruggendo ogni cosa incapace di correre più velocemente dei suoi diecimila uomini, prese senza difficoltà alcune fortezze minori e giunto a quattro chilometri dal bersaglio piantò il campo. Trovata la più comoda delle posizioni, prese a soppesare la situazione e ben presto dovette ritenere nulle le possibilità di salvezza della preda.
Non altrettanto sicuri erano però i commissari fiorentini. Quello che vedevano costoro, certo meno avvezzi alla cose della guerra, era una città resa imprendibile dalla geologia, una città che ogni giorno veniva meglio fortificata dal nemico sotto l’unico indifferente occhio dell’immobile capitano urbinate.
In realtà al Montefeltro non stava certo mancando l’animo. C’è da credere che la sua tattica attendista avesse due obiettivi: anzitutto quello di procrastinare almeno un po’ la fine della missione perché da questa guerricciola gli uomini d’arme venissero meglio ricompensati; e poi intendeva dar modo e tempo ai volterrani per rendersi conto della disparità di forze in campo.
Sia come sia, quando lo ritenne opportuno, il conte d’Urbino inviò in segreto alcuni rappresentanti per mezzo dei quali scongiurava gli assediati di arrendersi prima che il ricorso alle armi divenisse cosa obbligata e, si dice, per offrirsi addirittura come intermediario tra le parti in causa.
I volterrani però dovettero scambiare la non aggressività di Federico per paura e, forti di qualche centinaio di mercenari che si era riusciti a rimediare e della nomea che voleva l’abitato fortezza inespugnabile, decisero di rispondere picche all’offerta.
Mai rifiuto dovette portare a peggiori conseguenze.
La battaglia
Di punto in bianco alcuni contingenti ricevettero da Federico l’ordine (ai più incomprensibile) di attaccare un bastione ben difeso e piuttosto lontano dalle porte d’accesso alla città, contingenti che quasi istantaneamente si videro venire incontro un folto gruppo di mercenari schierati a battaglia.
Quando il contatto tra i due schieramenti pareva ormai prossimo, il Montefeltro mandò la nutrita e veloce cavalleria a suonarle di santa ragione ai fanti forestieri presi a nolo dagli assediati. Ai malcapitati non rimase allora che il tentare di tornare entro le mura alla si salvi chi può!, un’impresa che tuttavia riuscì solo a pochi, perché il vivo timore che assieme ai loro potessero entrare anche gli uomini della fazione fiorentina aveva spinto le guardie a chiudere anzitempo le porte. Peggio ancora: privato del soccorso della fanteria, il già detto bastione -difeso dai rampolli più in vista della nobiltà locale – cadde in brevissimo tempo.
In pochi attimi, l’astuzia dello scaltro condottiero della Lega aveva cancellato ogni sicurezza negli assediati e dato modo a quei commissari che lo ritenevano “inefficace” di rivedere drasticamente il proprio giudizio.
Furono invece gli ininterrotti colpi d’artiglieria che piovvero per giorni e giorni su Volterra a invitare i mercenari assoldati dalla città a tradire e consegnarsi al campo degli attaccanti. Questi fatti, unitamente alla breccia aperta dai medesimi cannoneggiamenti, convinsero definitivamente le autorità volterrane ad arrendersi.

Verso il sacco di Volterra
Gli sconfitti trattarono con Lorenzo de’ Medici e da questi ottennero la promessa d’avere salvi vita e beni al prezzo d’una resa immediata, senza condizioni né resistenze.
Il piano prevedeva che uno sparuto gruppo di fiorentini entrasse nella notte entro le mura e nel silenzio occupasse la rocchetta e le altre fortificazioni di Volterra. Alle prime luci del mattino Federico e i commissari avrebbero dovuto entrare ordinatamente per la breccia aperta e controllata dalla guardia volterrana per prendere possesso della città in nome di Firenze. Tutto ciò senza colpo ferire.
Ma le cose non andarono affatto come pattuito, anche se nessuno sa indicare il modo esatto in cui i fatti si svolsero. C’è chi sostiene che l’ignobile sacco di Volterra sia stato ordinato dal conte d’Urbino per punire gli sconfitti colpevoli di non essersi arresi quando egli gliene aveva concesso l’occasione (a sostegno di questa tesi il Guicciardini afferma che i fiorentini non avrebbero avuto alcun vantaggio nel prendere una città del tutto distrutta); altri invece dicono che il sacco di Volterra si consumò nonostante l’indignazione del Montefeltro.
Per la terra correa con gran furore
forte gridando con la spada in mano
per preservare alle donne l’onore.
A leggere le opere letterarie (l’esempio sopra è tratto dal poemetto La guerra di Volterra) coeve agli avvenimenti verrebbe da preferire la seconda ipotesi, ipotesi che vorrebbe l’ormai celebre sacco di Volterra svolgersi come raccontato di seguito.
Il sacco di Volterra, l’euforico massacro
Poco più di un mese si era protratto l’assedio. Decisamente poca cosa per quei mercenari che avevano sperato di risollevare le proprie finanze private con l’avventura volterrana. Costoro, tuttavia, avevano ancora una possibilità di guadagno nel “bottino di guerra”, possibilità che sarebbe venuta meno se le parti in causa fossero giunte ad accordi.
Così, mangiata la foglia, i mercenari presero a tenere gli occhi aperti. Non rimasero sorpresi, la notte, nell’accorgersi degli strani movimenti in essere nel campo fiorentino. E quando le genti fedeli ai Medici stavano per prendere possesso della rocchetta nel silenzio più totale, questi attaccarono a gridare come invasati “all’armi! All’armi!”.
I difensori pensarono di essere assaliti, e ciò dovette dare la stura a un enorme e violento tutti contro tutti. Ma la baruffa era destinata a peggiorare: dall’accampamento dei vincitori si era capito che qualcosa nell’abitato non andava, allora si era pensato di inviare un buon numero di soldati della Repubblica a rimettere ordine. Ma i nuovi arrivati scoprendo sorvegliata la breccia aperta nelle mura decisero di forzarla all’abituale grido di battaglia fiorentino, cosa che fece del tutto disperdere la guardia di Volterra, ultimo baluardo tra la città e il caos.
Quando all’alba il Montefeltro entrò a Volterra, accompagnato dai commissari della Repubblica, gli si parò davanti la più tremenda delle visioni: i soldati dell’uno e dell’altro schieramento avevano abbandonato ogni forma di rispetto per i superiori e dimenticato finanche il più basilare senso di pietà. Vicoli e vie erano divenuti strade d’un girone dantesco, l’abitato aveva preso le fattezze d’una festa macabra dove le case erano messe a ferro e fuoco, gli uomini venivano sgozzati o peggio, e le donne stuprate senza ritegno alcuno.
Nell’orrenda mischia, il conte d’Urbino riconobbe i capi dei mercenari di Volterra, gli stessi che erano venuti a consegnarglisi all’accampamento. Li fece impiccare dove meglio potevano esser notati i loro corpi penzolanti, sperando che la severità del giudizio potesse acquietare gli animi. Ma la sanguinaria baldoria non si placò che a sera, dopo le intense operazioni di polizia intraprese da Federico e i suoi.
I sostenitori dell’innocenza del capitano urbinate asseriscono che, visto lo stato in cui s’era venuta a trovare la città che aveva promesso di tutelare, questi decise di non riscuotere la propria condotta. Le malelingue ribattono che, vinta la guerra, Firenze l’aveva onorato di così tanti doni in oro da rendere superfluo il pagamento di una condotta.
E poi ci sono i più maliziosi, quelli che vorrebbero Federico semplice esecutore di un ordine arrivato niente meno che da Lorenzo de’ Medici, il quale aveva forse visto nel sacco di Volterra una maniera piuttosto efficace per sfoltire la concorrenza.